segunda-feira, abril 9

Homenagem: Lorenzo dei Medici



Canzoniere

I
Tanto crudel fu la prima feruta,
sì fero e sì veemente il primo strale,
se non che speme il cor nutrisce ed ale,
sare'mi morte già dolce paruta.
E la tenera età già non rifiuta
seguire Amore, ma più ognor ne cale;
volentier segue il suo giocondo male,
poi c'ha tal sorte per suo fato avuta.
Ma tu, Amor, poi che sotto la tua insegna
mi vuoi sì presto, in tal modo farai,
che col mio male ad altri io non insegna.
Misericordia del tuo servo arai,
e in quell'altera donna fa' che regna
tal foco, onde conosca gli altrui guai.

II
Era nel tempo bel, quando Titano
dell'annual fatica il terzo avea
già fatto, e co' sua raggi un po' pugnea
d'un tal calor, che ancor non è villano;
vedeasi verde ciascun monte e piano,
e ogni prato pe' fiori rilucea,
ogni arbuscel sue fronde ancor tenea,
e piange Filomena e duolsi invano;
quando io, che pria temuto non avria,
se Hercole tornato fussi in vita,
fu' preso d'un leggiadro e bello sguardo.
Facile e dolce all'entrar fu la via;
or non ha questo laberinto uscita,
e sono in loco dove sempre io ardo!

III
Già sette volte ha Titan circuito
nostro emispero e nostra grave mole:
per me in terra non è stato sole,
per me la luce o splendor fuor non uscito.
Ond'è ch'ogni mio gaudio è convertito
in pianto oscuro, e più ognor mi duole,
veder Amor che ne' principii suole
parer placato, ognor più incrudelito.
Tristo principio è questo al nostro amore,
e già mi pento della prima impresa,
ma or quando aiutar non me ne posso;
ch'io sento arder la face a mezzo il core,
e oramai troppo è questa esca accesa.
Dunque, ben guardi ogn'uom pria che sia mosso.

IV
Sonetto fatto quando una donna che era ita in villa.
Felici ville, campi e voi silvestri
boschi e' fruttiferi arbori e gl'incolti,
erbette, arbusti, e voi, dumi aspri e folti,
e voi, ridenti prati al mio amor destri;
piagge, colli, alti monti ombrosi alpestri,
e fiumi, ove i be' fonti son raccolti;
voi, animal' domestici e voi, sciolti
ninfe, satiri, fauni e dii terrestri;
omai finite d'onorar Diana,
perché altra dea ne' vostri regni è giunta,
che ancor ella ha suo arco e sua faretra.
Piglia le fere ove non regna Pana:
e quella che una volta è da lei punta,
come Medusa, la converte in pietra.


Altre Rime

I
Alla Ginevra de' Benci

Segui, anima devota, quel fervore
che la bontà divina al petto spira,
e dove dolcemente chiama e tira
la voce, o pecorella, del pastore.
In questo nuovo tuo divoto ardore
non sospetti, non sdegni, invidia o ira:
speranza certa al sommo bene aspira,
pace e dolcezza e fama in suave odore.
Se in pianti o sospir' semini talvolta
in questa santa tua felice insania,
dolce e eterna poi fia la ricolta.
Populi meditati sunt inania:
lassali dire, e siedi e Gesù ascolta,
o nuova cittadina di Betania.

II
Alla Ginevra de' Benci

Fuggendo Lot con la sua famiglia
la città che arse per divin giudizio,
guardando indrieto il giusto e gran supplizio,
la donna immobil forma di sal piglia.
Tu hai fuggito, e è gran maraviglia,
la città che arde sempre in ogni vizio;
sappi, anima gentil, che 'l tuo offizio
è non voltare a lei già mai le ciglia.
Per ritrovarti il buon pastore eterno
lassa il gregge, o smarrita pecorella:
truòvati, e lieto in braccio ti riporta.
Perse Euridice Orfeo già in sulla porta,
libera quasi, per voltarsi a quella:
però non ti voltar più allo inferno.

III
Lorenzo de' Medici quando tornò da Napoli, a Bernardo Bellincioni

Un pezzo di migliaccio mal avia
e una fiera bestia e una a Prato
avevon tanto un erpice menato,
ch'egli era fuor del solco per pazzia.
Ma se n'avvide mona Nencia mia
e tese al sole un vaglio ben bucato:
un giudeo il vidde, e funne sì crucciato,
che non vorrebbon più geometria.
Quell'"arri sta", che fanno i paladini,
quando vanno a Piacenza coi cestoni,
fanno impazzar quei poveri asinini.
Perché hanno il capo vuoto, molti arpioni
armeggion per calendi e pastaccini,
e deston la mattina i dormiglioni.
E però i calicioni
s'armon di troppo debole corazza,
ch'ogni poco di stretta poi gli ammazza.

V
Lorenzo de' Medici al Bellincioni, mandandolo in un certo luogo a intendere il suo proposito

Va', Bellincion, e fa' il Sosia:
motti, provviso, frottola e sonetto,
e poi ti mostra un certo recolletto
di mano, e incanti, e di fisonomia.
Alcuna volta dir qualche pazzia,
e 'l suo contrario poi mostra intelletto,
che di savio e di matto abbin sospetto,
e intendi, attingi e trai pur tuttavia.
Fa' il cieco e 'l sordo sempre in ogni loco
e loda, abbraccia, ridi e bacia spesso,
e stu se' morso, piglia a festa e gioco.
E fatti sempre a' cerchiolini appresso
qualche storia: Seleuco e Antioco,
tu intendi, e mostra il lauro che sia fesso.
Ma non d'arrosto e lesso
parlare intendi, e presto sia tornato.
Come t'ho detto: studia nel Donato.

VII
Le sette allegrezze d'amore

Deh, state a udire, giovane e donzelle,
queste sette allegrezze ch'io vi vo' dire,
divotamente, ché son dolci e belle,
che Amore a chi lo serve fa sentire;
io dico a tutte quante, e prima a quelle
che son vaghe e gentili e in sul fiorire:
gustate ben queste allegrezze sante,
che Amor ve ne contenti tutte quante!
Prima allegrezza, che conceda Amore,
si è mirar duo pietosi occhi fiso:
escene un vago, bel, dolce splendore;
veder mover la bocca un dolce riso,
le man', la gola e i modi pien' d'onore,
l'andar che uscito par di paradiso,
ogni atto e movimento che si faccia;
e così prima un cor gentil s'allaccia.
La seconda allegrezza, che Amor dona,
è quando hai grazia di toccar la mano
accortamente, ove si balla o suona
o in altro modo strignerla pian piano;
e, mentre che si giuoca o si ragiona,
gittar certe parole, e non invano;
toccare alquanto e strigner sopra i panni
in modo che chi è intorno se ne inganni.
Terza allegrezza, quale Amor concede,
è quando ella una tua lettera accetta,
e degna di rispondere e far fede
di propria man che 'l giogo al collo metta;
ben è duro colui che, quando vede
sì dolce pegno, lacrime non getta:
leggela cento volte e non si sazia
e con dolci sospiri Amor ringrazia.
Più dolce assai quest'allegrezza quarta,
se ti conduce a dir qualche parola
a solo a solo, e far del tuo cor carta,
e dire a bocca bene ove ti duole;
se avvien che Amor le some ben comparta,
senti dir cose da fermare il sole:
dolci pianti e sospiri, e maladire
uscio o finestra, che ti può impedire.
Chi può gustar questa quinta allegrezza,
può dir che A4more il suo servizio piaccia
se avvien che baci con gran tenerezza
un'amorosa, vaga e gentil faccia,
le labbra, e dentro ov'è tanta dolcezza,
la gola e 'l petto e le candide braccia
e tutte l'altre membra dolci e vaghe,
lasciando spesso i segni delle piaghe.
Questa sesta allegrezza, ch'io ti dico ora
è venir quasi alla conclusione,
e a quel fin per che ognuno s'innamora
e si sopporta ogni aspra passione;
chi l'ha provato e chi lo pruova ancora
sa che dolcezza e che consolazione
è quella di poter sanza sospetto
tenere il suo signore in braccio stretto.
Vien drieto a questa l'ultima allegrezza,
ché Amor infin pur contentar ci vuole:
non si può dir con quanta gentilezza,
con che dolci sospir', con che parole
si perviene a quest'ultima allegrezza,
come si piange dolcemente e duole;
fassi certi atti allor, chi non vuol fingere,
che un dipintor non li potria dipingere.
Queste so' l'allegrezze che Amor dà,
donne, a chi lo serve fedelmente;
però gustile e pruovile chi ha
bellezza, gentilezza, età florente,
Queste allegrezze, che detto ho al presente,
ché perder tempo duole a chi più sa.
chi dice e pruova con divozione,
non può morir sanza l'estrema unzione.
Questo povero cieco, quale ha detto
queste allegrezze, a voi si raccomanda:
vorrebbe qualche carità in effetto,
almen la grazia vostra vi domanda;
Amor l'ha così concio il poveretto,
come vedete, e cieco attorno il manda.
Fateli qualche ben, donne amorose,
che gustar possi delle vostre cose.
Il poveretto è già condotto a tale,
che non ha con chi fare il carnasciale.

Tutte le opere, Orvieto, Paolo (a c. di), Salerno, Roma, 1992

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